All'interno degli ambienti sotterranei di Roma si possono spesso rinvenire strutture che costituivano l'articolato e complesso sistema di alimentazione e fruizione idrica della città.
I Romani raggiunsero livelli eccelsi nelle opere idrauliche grazie alla consapevolezza dell'importanza politica della cultura dell'acqua. L'acqua non era solo un elemento necessario alla sussistenza ma, attraverso l'immissione in città di circa un milione di metri cubi al giorno, divenne un elemento di celebrazione del potere. Gran parte delle acque, infatti, venivano utilizzate per alimentare le numerose terme e bagni pubblici, le naumachie o per le spettacolari fontane e ninfei.
Nell'epoca imperiale si raggiunse la massima diffusione della fruizione delle utenze idriche con la distribuzione di grandi quantitativi d'acqua alla popolazione, il numero delle fontane, l'altezza e la ricchezza dei getti d'acqua, le dimensioni dei bacini delle piscine, la dotazione di ampi e lussuosi servizi igienici.
I Romani sfruttarono le conoscenze nel campo della tecnica idraulica già raggiunte dagli Egiziani e dai Greci e a loro volta fatte proprie dai popoli del vicino Oriente, abili costruttori di opere quali i Qanat.
Gli stessi Etruschi si dimostrarono eccellenti maestri nella realizzazione di opere idrauliche ipogee, tanto che le prime realizzazioni romane, per fattura e tecniche costruttive, ricalcarono fedelmente quelle etrusche.
Le fonti testuali da cui si possono trarre informazioni sulle capacità tecniche romane nel campo dell'idraulica sono essenzialmente due: il De architectura di Vitruvio (I sec. a.C.), nel quale vengono illustrati i criteri costruttivi degli acquedotti e i sistemi di immagazzinamento delle acque e il De aquaeductis urbis Romae di Sesto Giulio Frontino (fine I sec. d.C.), nel quale vengono descritti in maniera dettagliata gli acquedotti che rifornivano la capitale. Restano, al di là dei testi, le maestose vestigia delle opere idrauliche che, a Roma come nel resto dell'Impero, testimoniano il ruolo chiave esercitato dall'acqua nella civiltà antico romana.
Le tipologie più frequenti di opere idrauliche che si possono incontrare nel mondo sotterraneo sono i condotti idraulici, che servivano per trasferire l'acqua da un luogo all'altro, per conservarla (le cisterne cunicolari), o addirittura come sistema di raccolta di acqua percolante alla stregua degli antichi Qanat del Nord Africa, capaci di ricavare acqua perfino in aree desertiche. Appartengono a questa categoria anche gli spechi degli acquedotti che, tranne che per brevi tratti, si sviluppavano prevalentemente interrati in canali che potevano essere sia semplicemente scavati nel tufo, sia impermeabilizzati con la malta idraulica, o addirittura rinforzati con murature di varie tipologie. Su una lunghezza totale di circa 500 km, pari a quella cumulativa di tutti gli acquedotti che alimentavano Roma, l'acqua correva in sotterraneo, entro gallerie e cunicoli, per oltre 420 km. Per facilitare la costruzione dell'acquedotto e le successive ispezioni e manutenzioni,, venivano scavati dei pozzi provvisti di pedarole per la discesa.
Gli acquedotti che in epoca imperiale garantivano l'approvvigionamento idrico della città erano undici, costruiti a partire dal IV sec. a.C. in un arco di seicento anni. Prima della realizzazione degli acquedotti, come riporta Frontino, i Romani si servivano dell'acqua del Tevere, dei pozzi e delle sorgenti presenti alla base dei colli intraurbani. Le sorgenti davano spesso vita a veri e propri torrenti in cui confluivano anche le acque piovane. Questi torrenti, in molti casi, continuano ancora oggi a scorrere nel sottosuolo. Spesso per la loro osservazione impedita dal fatto che il loro flusso scorre attraverso lo strato di ruderi e detriti che si interpone tra il moderno piano di calpestio e quello della citt romana.
Le cisterne e i serbatoi che avevano la funzione di conservare l'acqua e di permetterne un uso procrastinato nel tempo. I Romani avevano elaborato in questo settore un'avanzata tecnica costruttiva che prevedeva l'impermeabilizzazione interna tramite una speciale malta denominata cocciopesto, composta da una miscela di calce, sabbia o pozzolana, frammenti di terracotta e, forse, di un collante vegetale (latte di fico?). Le cisterne generalmente hanno uno o più ingressi per lacqua e uno scarico di fondo non sempre presente e servivano per accumulare l'acqua piovana. I serbatoi invece appartengono a una categoria costruttiva differente e più avanzata in quanto erano utilizzati per accumuli temporanei d'acqua proveniente da un acquedotto. Immagazzinando l'acqua in questo modo si poteva gestire il flusso da ridistribuire alle utenze in previsione delle ore di punta dei consumi. I serbatoi erano molto spesso collocati in zone sopraelevate per garantire l'approvvigionamento in pressione delle utenze situate a valle mediante tubazioni in pressione. Al fondo dei serbatoi si trovavano le piscine limarie, degli scomparti atti a contenere i depositi dellacqua, operando così una forma di purificazione.
Generalmente l'acqua, prima di arrivare a destinazione, raggiungeva una serie di piccoli serbatoi, denominati castella, che avevano la funzione di ripartitori. Frontino calcola l'esistenza, solo nella città di Roma, di 247 di questi castella.